articolo tratto da Diario del 20/12/2002


UN CERTO STILE
Consigli per sopravvivere meglio
 

Ottant’anni fa a Grosseto nasceva Bianciardi.
L’autore che vivendo e scrivendo dalla parte dei deboli raccontò come stesse cambiando l’Italia

Dialoghi con Luciano
DI Mario Dondero


Qualche sera fa, a Bologna, al circolo culturale La bottega dell’Elefante Ettore Bianciardi, figlio di Luciano, leggeva brani de Il Lavoro culturale, de L'integrazione e de La Vita agra a un pubblico, che in parte scopriva con stupore ammirato l’alto valore letterario e umano dello scrittore di Grosseto. Bisogna ammettere che lo spettacolo di un figlio che legge con ispirato fervore suscita un interesse che travalica la cornice di un incontro culturale.

Per me, che ho ben conosciuto Luciano Bianciardi a livello di grande intimità fraterna, ritrovare nel figlio tratti e atteggiamenti molto simili a quelli del suo grande babbo, l’emozione non riguardava soltanto il piacere di gustare l’acre ironia di Luciano nel fustigare i mali del mondo, ma di ritrovare nei tratti e nella voce una sorprendente analogia con lo stile egli accenti del mio amico perduto. Un episodio che si è prodotto anche in un’altra grande rimpatriata bianciardiana, un intero numero della trasmissione Grammelot andata in onda lo scorso i settembre su Radiotre dedicato a Luciano Bianciardi: un tuffo struggente nel passato ascoltando l’inconfondibile voce sbarazzina di Luciano magicamente ritrovata. Di lui scrissero che era "il primo arrabbiato che si incontri nella letteratura italiana del dopoguerra e anche uno dei pochi scrittori che abbiano capito in quale abisso stesse precipitando il Paese. Stordito dalla cattiva digestione del miracolo economico".

La vita agra fu un grande successo, un libro pervaso da un sogno libertario generoso, che piacque al popolo e agli incliti, consolidando il prestigio di Bianciardi già cospicuo presso gli intellettuali grazie ai lavori precedenti. Non piacque però a Grosseto dove Otello Tacconi, un probo lavoratore che per Luciano era l’eroe della storia, si turbò molto per quel potenziale ruolo di dinarnitardo e gli fece causa. Per Luciano la delusione fu molto grande.

IN PRIMA PERSONA. Prima di scriverla comunque La vita agra era occorso viverla. Ugo Mulas e io, sodale fraterno di quel tempo straordinario, compagno d’avventure fotografico-giornalistiche, abbiamo avuto modo di conoscere Luciano, sorta di coupe de foudre triangolare, quando ci recammo a Grosseto - mi pare che fosse nell’estate dei 1953 - per realizzare un reportage sui giurisdavidici, i seguaci di Davide Lazzaretti anche detto "il Cristo dell'Amiata" o il "Prete rosso". Direttore della Biblioteca Chelliana, il dottor Luciano Bianciardi ci era stato indicato come il maggior esperto in materia d’eresia giurisdavidica. Ci accolse benissimo e ci spedì a trovare il Tomencioni, maggiore depositano di dottrina e reliquie di quel "santo" dell’Amiata che concepì una specie di "città del sole" per affrancare i contadini di Arcidosso dallo sfruttamento feroce. Venne assassinato per questo nel 1878 dalla forza pubblica. Fu un bersagliere in licenza a centrarlo in piena fronte con un colpo di carabina. Con Ugo durante il nostro reportage ritrovammo anche i ruderi della torre eretta su ispirazione di Davide Lazzaretti per dare un tetto a chi non l’aveva.Parole chiave. La Maremma, l’escatollo, il Risorgimento,il miracolo economico, i minatori, le traduzioni: era molto complessa la vita da cui Bianciardi si è lasciato scivolare via DA GROSSETO A MILANO. Così molto più tardi, quando Bianciardi venne chiamato a Milano, la prima porta cui bussò in cerca d’alloggio fu la nostra, semplici inquilini della pensione della signora Maria Tedeschi, la signora De Sio della vita agra, al n. 8 della via Solferino, piena di materna comprensione per le nostre giovani esistenze. Queste righe non nascono quindi soltanto da mere circostanze di calendario - La Vita Agra, l’opera che ne consacrò la fama uscì quarantant’anni fa, lo scrittore morì a Milano nove anni dopo - ma dall’evidente intatta attualità, nelI’Ubuesca stagione che vive il nostro Paese della sua denuncia contro la grettezza, l’insipienza, l’egoismo di un mondo che chiama aziende gli ospedali e rifiuta assistenza ai deboli. Lui che portava i bibliobus insieme a Carlo Cassola sui tratturi impervi della Maremma, come Garcia Lorca che seguiva il teatro itinerante de La Barraca nei pueblos andalusi, amava immergersi nel mondo popolare: "Scrivo per dare ragione a chi ce l’ha", amava ripetere.

Quando la scorsa primavera quel piccolo aereo si conficcò tragicamente nel Pirellone fummo probabilmente in parecchi a pensare per un istante alla Vita agra, storia di un uomo che vagheggiava di far saltare con la dinamite il "torracchione" della società mineraria per vendicare i minatori morti per un’esplosione da grisou in una miniera maremmana. Riferimento chiaro alla tragedia che si riprodusse nel maggio del 1954 a Ribolla nel pozzo Camorra, nella miniera di lignite della Montecatini dove persero la vita quarantatré minatori. Di essi Luciano Bianciardi, fra i primi ad accorrere sul luogo dell’incidente, ne aveva conosciuti diversi nel corso di un’inchiesta per l’Avanti! (pubblicata in volume dalla Laterza e firmata con Carlo Cassola) sulle loro condizioni di vita e di lavoro. Circostanza che rese più acuto il dolore e l’indignazione per le evidenti carenze nelle misure di sicurezza, che poi la giustizia sanzionò condannando la Montecatini. La posizione di Bianciardi era chiara e netta: "Hanno ragione i badilanti, e hanno ragione i minatori, hanno torto i latifondisti e ha torto la Montecatini. Basta muoversi appena un poco, vedere come questa gente vive e muore e la scelta viene da sé. Ma questo accadeva un po' prima che salisse a Milano a viversi la "vita agra". Era veramente poi così agra, antitesi negativa della felliniana Dolce Vita, la vita di Luciano e la nostra? ln fondo come i giurisdavidici dell’Amiata, al bar delle Antille ovvero il Giamaica eravamo anche noi una comunità anche se non proprio religiosa. Ma ci dividevamo il pane e i pesci come i credenti sul Monte Labro anche se nessun bersagliere venne mai a spararci contro. Ci dardeggiavano semmai le occhiate miste di scandalo e di livore dei passanti, magari d’invidia per la presenza fra noi di belle ragazze, giovani artiste studentesse della vicina Accademia di Belle Arti. Gli abitanti a Brera allora erano però bonari e cordiali; il quartiere era simile per molti versi alla pratoliniana via del Corno delle Cronache di poveri amanti. La celebre pinacoteca della Braida, come la chiamava Luciano, attirava già molti turisti e una clientela furtiva frequentava i bordelli di via Fiori Chiari alla vigilia della loro, si spera, definitiva chiusura. In questa sorta di Pigalle ambrosiana dove mi piace ricordare gli amici più cari di Luciano che erano il pittore di Piombino Furio Cavallini, Bepi Tavella, Ormanno Foraboschi, Giulio Cingoli e Germano Lombardi, si svolse quindi parte della nostra giovinezza, e approdò nel 1954 per integrare la redazione editoriale della nascente casa editrice di Giangiacomo Feltrinelli il trentaduenne dottor Bianciardi da Grosseto.

GRANDE TRADUTTORE. Militare in Puglia prima dell’8 settembre, si era aggregato in qualità di traduttore all’Armata britannica e aveva risalito la penisola con i &bbiet. La sua familiarità con la lingua inglese, la sua vocazione di traduttore letterario e lo scoprirsi poi un vero scrittore nacque, probabilmente nei dialoghi febbrili del fronte. Fra il Venafro e il Metauro. Il mestiere del traduttore, croce e delizia: la felicità di scavare dentro gli idiomi, le amicizie internazionali cori Enrico Molinari (Henry Miller) e Norman Mailer dei cui libri si occupava, le notti insonni.

L’amore ovviamente aveva un grande spazio nella vita di Luciano con i tormenti che gli procurava l’essersi lasciato alle spalle una famiglia a Grosseto. Un rovello che non lo ha mai abbandonato, ma la loro storia, quella tra Luciano e Maria coronata dalla nascita di Marcello che per inique ragioni di anagrafre è registrato con il cognome della madre,Jatosti, era bellissima a vedersi. Ammiravamo Maria, la "ragazza della Garbatella" che portava sempre un vento d’allegria tutto capitolino. Aveva uno stile cameratesco senza ambiguità. Il rapporto con Luciano ci sembrava donnant donnant, assolutamente pari. In quella sua biografia così intensa, Vita agra di un anarchico pubblicata dalla Baldini & Castoldi di Pino Corrias la descrive piangente in un angolo per l’ultimo addio. Esequie con quattro gatti, come quelle di Mozart, dove si riconoscono solo Cesare Vacchelli e Sergio Pautasso.

UN GRUPPO DI AMICI. Per tornare alla pensione ricordo quando con Ugo Mulas e Carlo Bavagnoli trasferitosi nella nostra stanza perfar posto a Maria, ci addormentavamo spesso con il ticchettio nelle orecchie della macchina da scrivere di Luciano che raggiungeva anche gli altri dormienti che erano Bepi Tavella, i pelotari baschi, i venditori dei libri a rate dell’Einaudi Uberto Guidotti e Giancarlo Bonora e Franz Saba Sardi, scrittore con la passione dell’erotismo. Luciano era un cesellatore di parole, un patito della ricerca certosina in biblioteca. Disseppelliva parole antiche e le riproponeva fresche e nuove. Prendiamo per esempio il titolo del libro uscito nel 1995 a cura di Luciana Bianciardi per la Baldini & Castoldi nella collana diretta da Oreste Del Buono, grande estimatore di Bianciardi: Chiese Escatollo e ,nessuno raddoppiò, raccolta di scritti usciti su giornali e riviste, titolo enigmatico quanti altri mai che viene da un breve testo pubblicato dall’Unità nel 1956: "Per esempio, sapete dirmi cos’è l’escatollo? Sì, l’escatollo, Losapete? Non lo sapeva nessuno. L'escatollo, disse Giulio, è il contrario del protocollo. Protocollo, cioè primo rigo è la formula con cui si inizia una lettera. Per esempio Caro Lucio, oppure Spettabile ditta, Egregio commendatore, Chiarissimo professore eccetera.. Escatollo è invece la formula di chiusura; per esempio: Tuo affezionatissimo, oppure Suo devoto, eccetera". Questo genere di piccole perle linguistiche lui le disseminava negli scritti, ma anche nelle conversazioni normali spesso deliziosamente pedagogiche: in fondo era stato professore di Filosofia. Fra i pallini principali di Luciano, oltre alle elucubrazione dotte, alla rivisitazione dei massimi sistemi, c’erano: evocazione nostalgica della Maremma e di Livorno meravigliosa città rossa e il gioco del calcio trattato alla maniera socio-politica di un Eduardo Galeano. Altro grande tema caro a Luciano era il Risorgimento del quale lui dissertava stabilendo continuamente rapporti con il presente in una geniale promiscuità di epoche. Da Quarto a Torino, La battaglia soda, il libro che Luciano riteneva la sua prova migliore scritta come continuità ideale con il suo diletto Bandi, grossetano come lui autore de I Mille di Genova a Capua, una lettura straordinaria su un argomento attualissirno (Giuseppe Bandi fu tra i più immediati collaboratori di Garibaldi nell’impresa dei Mille).

Nella pensione della signora Tedeschi l’effervescenza dialettica era sempre molto alta, con il Franz Saba Sardi. l’Uberto e il Giancarlo passati dalla vendita a rate di libri al giornalismo fotografico d’assalto, e ovviamente con la nostra ardente pasionaria Maria Jatosti e Luciano decisamente antifascista, come tutti noi del resto, ma con simpatie anarchiche più accentuate. Troppo impegnativa e rigida per lui la militanza nel Pci, soprattutto troppo burocratica, ma un pensiero sempre alto e nobile e nessuna concessione opportunistica. Meglio la stampa occasionale ed eteroclita che i ponti d’oro del Corriere della Sera. Il gran rifiuto a Indro Montanelli che lo stimava molto, anche per sodalizio toscano, avvenne molto più tardi quando la nostra piccola comune si era dissolta, di fatto, se non di spirito.

DA MILANO A RAPALLO. Quando partii per la Francia, il rapporto molto caldo con Luciano e Maria e gli altri amici, non si spezzò, ma si diluì in lunghe assenze. Di tanto in tanto ci si incontrava ed erano grandi abbracci, ma negli ultimi anni lividi pochissimo: loro, Luciano e Maria, si erano confinati presso Rapallo in una specie di enclave "longobarda" di pensionati benestanti, per usare il linguaggio bianciardiano, abbastanza deprimente nella sua grettezza preleghista. Oso supporre, e Maria interpellata di recente sottoscrive, che se si fossero fissati come Edoardo Sanguineti in un quartiere della grande Genova, nel mondo operaio che Luciano prediligeva, forse le cose sarebbero andate diversamente, forse il destino ci avrebbe conservato Luciano per molto tempo.

Turba l’animo affrontare i quesiti della morte di un amico, uno scandaglio difficile, forse ingiusto. Ti ferma il pudore. Crisi. smarrimenti e riprese intervengono nella vita di tutti gli uomini. Il malessere di Luciano fu una lunga discesa agli inferi da cui non si riprese. Forse lui che era un’anima bella, un grande cuore, non aveva abbastanza appreso il Il Mestiere di vivere, ma non si uccise come il suo fratello maggiore Cesare Pavese. Si lasciò scivolare fuori dall’esistenza.


home